IL NASO DELLA MAESTRA
Alcuni anni fa mi è capitato durante un corso di formazione a insegnanti della scuola primaria, di fare una domanda:
Quale ritenevano che fosse la loro “dote psicologica” più utile nel lavoro con i ragazzi.
Nel silenzio imbarazzato che, come sempre in queste occasioni, segue la domanda “dell’esperto”, prese la parola una delle insegnanti con maggiore esperienza del gruppo, la quale, per rompere il ghiaccio, affermò con una certa determinazione che certamente una delle capacità più utili che aveva acquisito con il tempo era “il fiuto” (seguirono alcuni ancora timidi cenni di assenso da parte di alcune colleghe).
“Con gli anni – spiegò alla mia richiesta di chiarimento – ho imparato a riconoscere da subito i bambini che mi daranno dei grattacapi, quelli più impegnativi, diciamo, e quelli invece che, posso metterci la mano sul fuoco, sono già capaci di stare a scuola e che daranno meno problemi. Capirlo subito mi è utile per sapere come comportarmi e gestirmi di conseguenza nei loro confronti… e al 90% ci azzecco”.
Le chiesi allora cosa le permettesse di essere un cecchino tanto infallibile. La risposta, alquanto più incerta della precedente, spiegò come “tutto un insieme di cose” le permettesse di farsi questa idea, elencando sostanzialmente alcuni clichè facilmente intuibili, che andavano dal contesto familiare, all’irrequietezza del bambino, ecc.
La maestra aveva ragione?
Anni di esperienza parevano dire di sì. Molto apprezzata dai genitori (così diceva la responsabile dell’istituto, forte dei tanti riscontri favorevoli), era certamente un’insegnante che “sapeva tenere una classe e sa sempre come prendere un bambino”.
Aggiungo che la donna dava tutta l’impressione di essere (e non ho motivo di sospettare il contrario) una persona votata al proprio lavoro, dedita all’educazione e l’istruzione dei bambini, desiderosa di far emergere e apprezzare le potezialità e le inclinazioni particolari di ciascun bambino, appassionata dell’arte di essere insegnante.
Quando infine chiesi anche alle altre maestre se ritenevano che la loro collega avesse ragione, e se ritenessero che “il fiuto” fosse una dote utile, diverse di loro, mostrandosi solidali e concordi con l’altra, ammisero che si trattava certamente di una competenza necessaria, che permetteva di risparmiare fatica e iniziare a capire da subito come comportarsi “nei diversi casi”, ovvero come rispondere ai diversi bambini. Loro stesse, alla fin fine, avevano un’abbondante casistica che dimostrava di “averci azzeccato” sin dalla prima occhiata, o quasi.
Le maestre in questione compivano tuttavia un errore fondamentale nella loro analisi della situazione, un errore tanto comune da essere universale: ignorare l’effetto della loro impressione sul modo di rispondere alla situazione, ai diversi bambini, e l’esito che questo aveva avuto, sin dall’inizio, sulle interazioni successive.
Tale errore può essere facilmente spiegato facendo riferimento ad una dinamica tipica delle interazioni umane e sociali, evidenziata dalla psicologia all’inizio degli anni settanta e comunemente chiamata “profezia che si autoavvera”. In sostanza quello che accade è che l’aspettativa che abbiamo rispetto ad una situazione, un evento, una persona, ecc. ci porta a pensare ed agire in modo tale da favorire, senza che ce ne accorgiamo, proprio ciò che ci attendevamo.
L’esempio della classe può essere chiarificatore: nel momento in cui le maestre si aspettano che un bambino le faccia disperare, saranno molto più vigili, attente, tese, determinate a farsi valere, pronte a rilevare i segnali di insubordinazione del bambino per poterli contrastare prima che diventino più difficili da reprimere. È intuibile come questa disposizione renda la relazione più tesa, aumentando la possibilità che l’alunno avverta disagio nel rapporto, reagendo con maggiore insofferenza, rispondendo proprio nel modo in cui ci si aspettava. Allo stesso modo, ma in senso opposto, l’aspettativa che un alunno sia bravo, brillante, ecc. determina un clima più fiducioso e stimolante attorno a lui, permettendogli quella serenità necessaria a realizzare le proprie potenzialità.
Ma, a guardar bene, in questa vicenda, quante profezie si sono “autoavverate”?
Quelle dell’insegnante le abbiamo già viste, ma in fondo anche il preside, con la sua certezza dell’affidabilità e bravura dell’insegnante, non potrebbe aver creato attorno a lei un clima favorevole, carico di quella stima essenziale perché la persona possa esprimere al meglio le proprie competenze?
È altrettanto possibile che, forte di questa convinzione, confermata da riscontri almeno in parte auto-realizzati, abbia finito per accogliere diversamente i diversi pareri (inevitabili) provenienti dai genitori dei bambini, avvalorando maggiormente quelli positivi e attribuendo quelli negativi a casi specifici, tratti caratteriali dei genitori recriminanti, ecc.
E poi le colleghe: riconoscendo e validando l’opinione espressa dalla maestra che aveva parlato per prima è credibile che l’abbiano fatta sentire parte di una buona squadra di lavoro, disponendola favorevolmente nei loro confronti, rendendo possibile una conferma dell’immagine stessa di questa insegnante come professionista brava, disponibile, con la quale riconoscersi.
In fondo, la sua capacità di togliere tutti d’imbarazzo prendendo la parola davanti allo psicologo, non è un segno della sua competenza? Ma forse chi ha parlato lo ha fatto proprio perchè sapeva di avere la stima altrui…
Infine i genitori, almeno quelli soddisfatti dell’insegnante: mostrando ai figli di riporre stima e fiducia nell’insegante, rendono possibile che il bambino veda la maestra come credibile, affidabile, legittimata, favorendo un loro migliore comportamento a scuola, una maggiore sicurezza nel chiedere un aiuto alla maestra che, competente e disponibile, prontamente lo dava, confermando l’ipotesi iniziale dei genitori…
Facilmente si potrebbe obiettare che è tuttavia innegabile che ci siano bambini più irrequieti ed altri più controllati, ma se proviamo a sostituire due termini così “predittivi” come “irrequieto” e “controllato”, con due più neutri, come “reattivo” e “posato”, possiamo facilmente vedere come l’interferenza dei nostri giudizi agisca nelle diverse situazioni sin dal linguaggio che spontaneamente usiamo, determinando il nostro modo di predire l’esito delle cose.
Un bambino irrequieto ci darà grattacapi, uno reattivo e pronto, soddisfazioni.
Un bambino controllato ci apparirà represso, uno posato e ponderante, più capace di pensare prima di agire.
Un caso unico, relegato alle aule di scuola? Assolutamente no, come facilmente si può intuire. Processi simili intervengono continuamente nella nostra esperienza, agendo nei rapporti con i colleghi, con i conoscenti, perfino con le cose: se sono sicuro di non essere portato per il computer, la matematica o il ballo latino americano ad esempio, più difficilmente proverò ad cimentarmi con la materia, o lo farò con tanta insicurezza ed ansia, che la mia mente e il mio corpo, irrigiditi dal disagio, non avranno modo di esprimere al meglio le loro potenzialità.
Al contrario, se il modo in cui mi approccio a queste attività sarà carico e convinto, sarò più reattivo, motivato e concentrato, nonché capace di fronteggiare eventuali fallimenti. Allo stesso modo, verso una persona che immagino simpatica, disponibile, in sintonia con me, sarò portato a essere più accogliente e affabile, favorendo un suo sentirsi accolta.
Il risultato, in entrambi i casi, sarà esattamente quello che ci attendevamo.
Questo concetto è semplice da capire se si parte da una logica “circolare” degli eventi, se si assume cioè che ogni episodio della nostra esperienza è sia risultato di una serie di eventi precedenti, che premessa per quelli che seguiranno. Ciò naturalmente non significa che il nostro pensiero, le nostre aspettative decidono il nostro futuro: la convinzione di essere un grande pianista non ci permette, da sola, di suonare neppure una canzonetta, ma ci può disporre nel modo più favorevole ad esprimere le nostre potenzialità, aumentando le possibilità di successo.
L’azione di questo meccanismo è universale ed inevitabile: le aspettative sono una strategia essenziale alla nostra mente per reagire alle situazioni in modo rapido ed efficace, senza soffermarsi ogni volta ad analizzare grosse quantità di informazioni necessarie ad agire.
Queste strategie, come tutte le strategie della nostra mente, possono divenire molto più utili se impariamo a conoscerle e, per quanto possibile, indirizzarle, togliendo almeno in parte il pilota automatico.
Come farlo?
Il primo passo necessario è la consapevolezza: accorgerci di un atteggiamento negativo, pessimista, di aspettative infauste che ci stanno influenzando sul modo di porci, può essere utile per renderci conto che il futuro è ancora da scrivere e capire cosa possiamo fare per far andare le cose diversamente.
A questo segue poi la necessità di agire in modo diverso, perché sono le scelte concrete che fanno la differenza. Comportarci come se le cose andassero come vogliamo è la strada migliore per aumentare la possibilità che le cose vadano davvero così: come ci comporteremmo se…
… questo bambino (o questo collega) fosse il migliore che abbiamo mai avuto?
… sapessimo già di essere piaciuti a chi ci fa un colloquio di lavoro?
… nel nostro ufficio ci fosse un clima affiatato?
… questa fosse la persona giusta per noi?
Non si tratta di ingannarsi. Ma di provare a scrivere una nuova profezia, e poi lasciarla realizzare.
Dott. Carlo Boracchi